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Counseling Day 2023


 
Il mercato è passato di moda. E le corporazioni più forti sfruttano l'occasione: si alleano con i parlamentarie si proteggono. Alla Camera non passa una norma per favorire l'accesso alla professione dei giovani notai; al Senato si provaa cancellare le parafarmacie. Gli avvocati rivogliono le tariffe minime e le assicurazioni l'agente monomandatario. La casta dei consumatori non c'è ancora e questa volta subisce l'attacco. Indietreggia. Ora non si cantano più le lodi delle deregulation aggressive di Margaret Thatcher e Ronald Reagan negli anni Ottanta, dei loro vittoriosi duelli con le trade unions, i minatori, i medici o gli uomini radar. Ora è il tempo dei ripensamenti, delle nuove (o vecchie) vie a un capitalismo temperato, con più Stato e più controlli e tanti paletti. Siamo in transizione: il tempo ideale per le corporazioni. Che, appunto, sono tornate, forti e resistenti.

Loro - si sa - occupano gli spazi vuoti. Approfittano delle distrazioni. Se di concorrenza non si parla più (non è un caso che solo due giorni fa il Commissario Ue alla Concorrenza, Neeile Kroes, abbia sentito il bisogno di ricordare che lei non è stata messa in quiescenza) vuol dire che questo è anche il momento delle lobby. Basta andare in Parlamento per rendersene conto. È lì, lungo i corridoi, nei conciliaboli, nelle commissionie in Aula, si sta giocando la grande partita: la rivincita delle corporazioni. Contro un pezzo delle liberalizzazioni approvate nella scorsa legislatura. Si annacquano o si cancellano le 'lenzuolate' di Bersani. Spesso si torna indietro.

Così la 'cittadella' dei notai ha chiuso i confini: ingresso vietato ai 66 giovani aspiranti notai che avevano superato l'esame orale al concorso del 2004 ma non erano stati ammessi allo scritto. La Camera dei deputati ha votato no. I notai continuerannoa essere pochi e, diciamo, benestanti. Perlopiù figli di notai. D'altra parte non siamo noi il paese della mobilità sociale: dice la Banca d'Italia che il 75 per cento delle famiglie che nel 1994 si trovava in basso nella scala sociale, nel 2004 (un decennio dopo) è rimasta allo stesso livello. Pure i ricchi hanno mantenuto la posizione. Qui non c'è mai stata la concorrenza. Anche in Parlamento si combatte (per interposta persona) per mantenere la posizione. O i privilegi. Come quello dei farmacisti che la professione la ereditano pure. E cominciano a soffrire la presenza delle 'parafarmacie' nei centri commerciali e non solo. Così arriva a sostegno l'emendamento che dovrebbe essere votato proprio in questi giorni. L'ha firmato il senatore Filippo Saltamartini (Pdl) e l'ha presentato (non si sa con quale attinenza) al disegno di legge delega sulla sicurezza sul lavoro: stop ai farmaci da banco venduti fuori dalle farmacie vere e proprie. E chi ha già avviato l'attività potrà proseguirla al massimo per dieci anni ancora.

«È uno sconcertante passo indietro, è il blocco delle parafarmacie, è l'abrogazione della legge Bersani», sostiene Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Conad che ha aperto 30 parafarmacie nei suoi centri e altre dieci le ha messe sulla rampa di lancio. L'Anpi, l'associazione delle parafarmacie, dice che nell'arco di due anni sono state aperte quasi 3.000 parafarmacie. Con effetti positivi sull'occupazione (soprattutto giovanile) e una diminuzione dei prezzi intorno al 25-30 per cento sui prodotti da banco e sui cosmetici. Effetto della concorrenza. Che alla Federfarma non piace. Perché - a parte l'emendamento Saltamartini - l'operazione è a raggiera. Al Senato sono in discussione un paio di proposte di legge del Pdl contro le parafarmacie alle quali il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio vorrebbe anche cambiare nome (drugstore?). Le hanno presentate il capogruppo Maurizio Gasparri («bisogna evitare situazioni di stressata competitività commerciale») e il senatore Maurizio Castro (ma il secondo firmatarioè il senatore-farmacista Fabrizio Di Stefano). Spiega Castro: «Dobbiamo rivalutare il ruolo della farmacia tradizionale». È anche una questione culturale, «neo-tradizionale», dice. «Perché l'antica farmacia fa parte della nostra identità italiana». Che non va mischiata nel «rito compulsivo dell'acquisto nei centri commerciali». «Un modello un po' retrò», ammette. Anche contro «lo strapotere» delle case farmaceutiche. Perché le corporazioni sono contro i 'poteri forti'. Almeno loro dicono così. Il tema è ricorrente.

E poi: chi sono i 'poteri forti'? Sostiene Maurizio de Tilla, presidente dell'Oua, l'organismo unitario dell'avvocatura: «L'abolizione delle tariffe minime la vogliono i poteri forti, le grandi aziende e gli enti pubblici che fanno le convenzioni al ribasso con gli studi professionali. Per il cittadino è indifferente». Analisi che trova una interessante conferma nell'ultimo Rapporto del Censis: «Il cliente medio, di per sé, non ha interesse specifico a quanto e a come si affaccia nella professione di avvocato la logica di mercato». Bersani ha abolito le tariffe minime, introdotto la possibilità di ricorrere (con tanti vincoli e cautele) alla pubblicità, e anche consentito il cosiddetto 'patto di quota lite' tra cliente e professionista, per cui gli avvocati possono incassare una parte dei beni sui quali è sorta la lite. Ora tutti gli avvocati hanno proposta di reintrodurre le tariffe minime e di vietare il patto. Il ministro di Grazia e Giustizia, Angelino Alfano, ha già annunciato che accoglierà quelle richieste. D'altra parte sugli scanni parlamentari ci sono ben 44 avvocati su 140 mila iscritti alla Cassa. Certo è la professione più rappresentata. E poi - stando al recente sondaggio di Ipsos Pa per il Sole 24 Ore il 42,9 per cento delle professioni elevate voterebbe per il Popolo delle libertà. Dunque, marcia indietro. Nonostante l'Antitrust di Antonio Catricalà nell'ultima indagine sulla concorrenza nelle professioni sia tornata a criticare la resistenza dell'ordine degli avvocati, che con una direttiva interna ha sostanzialmente aggirato la Bersani. Spiegano cheè una questione di «decoro»: perché un avvocato non può prendere sotto una determinata soglia. La loro attività professionale non è una merce come un'altra. Adam Smith, il padre del liberalismo, ascoltò questa stessa tesi da parte dei medici del Royal College of Physicians di Edimburgo, e non riuscì a capirla. Era il 1774. La crisi non è un buon argomento per giustificare la nuova ondata anti-concorrenziale.

Anzi. Da anni Carlo Scarpa, economista dell'Università di Brescia, conduce la sua battaglia intellettuale a favore delle liberalizzazioni: «In questa fase gli aiuti di Stato si possono comprendere e tollerare. Ma le chiusure all'accesso alle professioni non si possono accettare. Non c'è alcun motivo per imboccare questa strada. Piuttosto proprio in questo momento, per sostenere il potere d'acquisto dei redditi più bassi andrebbe incentivata la concorrenza. È tutto sbagliato quello che sta accadendo in Parlamento». Che aveva già depotenziato non di poco, con un rinvio dopo l'altro, la possibilità per i consumatori di ricorrere alla 'class action' a tutela dei propri interessi. Ma c'è chi non demorde. L'Ania, per esempio: la potente associazione delle assicurazioni. Un emendamento che reintroduceva l'agente monomandatario è stato bocciato in commissione, ma Fabio Cerchiai, presidente dell'Ania, non esclude (anzi) che possa essere ripresentato. Dice : «È ormai conclamato che le reti di vendita in esclusiva sono quelle meno costose, tanto che dopo la Bersani, che prevede l'agente plurimandatario, i costi distribuitivi sono cresciuti dell'1 per cento. E poi - aggiunge - con l'agente unico anche le offerte sono più convenienti». Per chi? «Per il consumatore». Chissà.

titolo: Le caste chiuse
autore/curatore: Roberto Mania
fonte: La Repubblica
data di pubblicazione: 06/05/2009
tags: riforma

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